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IL CANTICO

«L’intero mondo  non vale il giorno in cui il Cantico fu dato ad Israele. Sì tutti gli scritti sono santi, ma il Cantico è il più santo» (Rabbi Aqib, morto il 135 d.C.).

Il prezioso libro, quando conosciuto, esercita uno straordinario fascino. Si apre con un desiderio di baci, di carezze «più inebrianti del vino, dell’esalare dei profumi». «Attirami a te», dice l’amata. E come estasiata, continua: «a ragione di te ci si innamora».

Proteso verso la verità di quell’incontro, decisivo nella vita, il lettore del poema biblico, pagina dopo pagina, fa sua l’espressione che si trasforma in domanda: quale la ragione dell’insopprimibile desiderio?

Lo splendore misterioso di quell’abbraccio o la tragedia della sua mancanza: sono un inequivocabile segno del soffio divino, scolpito nel corpo dell’uomo e della donna.

Il libro continua con l’amata che si presenta con la pelle scura, ma consapevole di essere affascinante. Incurante dei consigli familiari desidera sapere solo dove l’amato pascola il suo gregge. In coro le si risponde di seguire le orme del gregge. Si continua con un duetto nel quale lui e lei si rincorrono con tenere  espressioni:

«Quanto sei incantevole compagna mia».

«Quanto sei incantevole, mio amato».

Sentendosi «malata d’amore» invita: «Figlie di Gerusalemme, non destate, non ridestate l’Amore finché non lo desideri». Insieme poi tutti e due, come cantando e danzando, entrano nella casa dell’amore.

Nel quadro successivo del poema lo scenario è la natura.

L’amato viene «saltando per i monti e balzando sopra  le colline».

«Occhieggia attraverso le finestre e spia attraverso la grata».

«O mia colomba che sei nelle fenditure della roccia… Fammi vedere il tuo volto».

Ci si misura poi con la fragilità di ogni amore umano: giunge la notte.

La notte dello smarrimento.

Nella città, nuovo scenario, «ho cercato l’amore dell’anima mia, l’ho cercato e non l’ho trovato».

La ricerca appassionata e determinata, viene coronata da successo.

Al di là delle sentinelle che fanno il giro della città:

«Ho trovato l’amore dell’anima mia. L’ho stretto forte e non lo lascerò…».

Dopo la campagna, la città, ora il nuovo scenario è il deserto. Il re Salomone (l’amato) «come colonna di fumo, esalando profumo di mirra e d’incenso, sale dal deserto». Un puntino lontano che solennemente e festosamente avanza fino a riempire tutta la scena.

«Uscite a vedere il re Salomone nel giorno della gioia del suo cuore».

Il testo biblico passa poi a un delicato e poetico canto del corpo femminile: gli occhi, i capelli, i denti, il collo, i seni… «Tutta incantevole sei compagna mia, difetto non c’è in te».

«Mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, mi hai rapito il cuore con un solo sguardo».

Giardino serrato, fonte, sorgente, pozzo di acque vive: «Venga il mio amore nel mio giardino».

L’amata ora affronta la notte dell’assenza dell’amore. Notte oscura. Tenebrosa.

«Un rumore. È il mio amato che bussa».

Sente perfino la voce: «Aprimi sorella mia, compagna mia».

L’amata trepidando va ad aprire per introdurlo nella sua camera…

«Ho aperto al mio amato, ma il mio amato era sparito, scomparso.

L’ho cercato, ma non l’ho trovato; l’ho chiamato, ma non mi ha risposto».

Non si ferma, non si dispera, ma, indomita e determinata, si lancia alla ricerca.

Affronta difficoltà, paure, percosse, derisioni.

Inconsolabile.

È – davvero – «malata d’amore».

Il libro prosegue con un nuovo canto sul corpo femminile: incantevole, affascinante, impressionante. L’incanto di un nuovo incontro, sempre nuovo, chiude il libro del Cantico.

«Ponimi come sigillo sul tuo cuore,

come sigillo sul tuo braccio,

perché forte come la Morte è Amore».

 

***

 

«Il Cantico è il gioiello della Bibbia» (E. Osty). «Non vi è nulla di più bello del Cantico» (R. Musil). Con queste due espressioni, di un esegeta e di uno scrittore, Gianfranco Ravasi apre il suo prezioso e straordinario commento al Cantico dei Cantici (EDB, Bologna 1992, ristampa 2003).

Ravasi è una guida incomparabile. Il suo commento è una preziosa mappa. Da appassionato cesellatore il Ravasi fa vibrare ogni versetto, ogni parola. Questa, scavata nella sua lingua originaria, l’ebraico, viene poi arricchita delle più importanti risonanze lungo la storia. Risonanze ebraiche, cristiane, letterarie, poetiche e mistiche. La simbologia è percorsa in lungo e in largo.

Il Cantico ha un suo significato immediato, ma è anche enigmatico.

Perché 1250 parole ebraiche hanno suscitato «uno sterminato manto bibliografico?».

Esse, in verità, toccano la ragione ultima dell’esistenza dell’uomo: essere amati e amare.

Quelle parole leggono anche la nostra ricorrente paura o il tragico terrore di rimanere soli!

«Io sono malata d’amore».

È la fedele radiografia dell’essere umano.

Non si può vivere senza una adeguata risposta a quella malattia dell’esistere.

Di più.

Si può parlare di Dio senza sperimentare quel divino fremito dell’amore?

Quasi una possessione, che pervade tutto il corpo, i corpi, e soggioga la mente.

 

«Forte come la Morte è Amore» (Ct 8,6).

Le tre parole ebraiche della finale del Cantico sono state spesso considerate come la sigla poetica, simbolica e spirituale del poemetto: un libro sigillato dall’amore e consacrato all’amore, dedicato alla coppia, a Lui e a Lei, che appaiono sulla scena della vita e del mondo ogni giorno. Poiché il Cantico è prima di tutto, (…), un manuale della Rivelazione sull’amore, sull’affetto, sulla sessualità (G. Krinetski) e perciò è la Magna Charta dell’umanità (K. Barth). C’è al suo interno, a prima vista, una religiosità quasi “laica”, segno di una profonda incarnazione della Parola di Dio, tant’è vero che il nome Dio è in pratica assente dalle pagine dell’opera» (G. Ravasi, Cantico dei Cantici, EDB Bologna 2003, pag. 41).

 

Ma non va dimenticato che già all’interno della stessa Bibbia l’amore sponsale è spesso allegoria dell’amore di Dio per il suo popolo, la sua creatura.

Per i cristiani, quindi, è piuttosto logica l’allegoria che interpreta il Cantico un inno all’amore di Cristo per la chiesa, o dell’anima con il suo Signore. Così hanno fatto i mistici di tutte le epoche.

Vetta ineguagliabile di questa chiave allegorica è Giovanni della Croce (1542-1591) nel Cantico Spirituale.

La sua personale esperienza mistica e i suoi scritti hanno accompagnato intere generazioni all’incontro con l’Amato o perlomeno a sentirne lo struggente fascino.

Ritengo che la chiave spirituale, intensa, drammatica ed esaltante,  sia  quella che più si addica nella mia storia personale. Nella parabola dell’amore sponsale che serenamente vedo vivere negli altri, la contemplo come misterioso Sacramento  che rinvia alla Sua presenza. Al Suo volto.

Cerco con passione il Suo volto nei poveri, in chi mi introduce nelle pieghe  più segrete della sua coscienza, in ogni persona che incontro. Nel perdono della confessione: donato a nome dei fratelli e del Dio dell’amore. Nella speranza suscitata dopo aver condiviso lacrime. Nell’insopportabile silenzio fraterno. Nelle lunghe notti solitarie.

 «Dove ti sei nascosto,

Amato, abbandonando me

gemente?                                                   

Come un cervo fuggisti

dopo avermi ferita;

uscii invocandoti e te ne eri

andato»

(S. Giovanni della Croce).

 

P. Franco Incampo cmf

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