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Il Fazzolettone

Non so perché, ma ad un certo punto della vita le cose diventano chiare, e non hai più pudore di comunicare e di dire quello che senti. Questo avviene quando meno te lo aspetti e non quando tu lo decidi. Non nascondo il mio scetticismo per i raduni un po’ nostalgici. Debbo subito aggiungere però, che non finisco di meravigliarmi dell’intenso affetto e della forza dell’amicizia toccata con mano nei primi raduni degli ex scout del Roma XIII. Il tratto di strada fatto insieme ci ha davvero marcati. Per il primo raduno di qualche anno fa ho tirato fuori il fazzolettone. Dio solo sa quante volte l’ho perso e poi puntualmente ritrovato. Scompariva nelle confuse tende, nei disordinati e pesanti zaini. Lo perdevo salendo di corsa sui treni che, inevitabilmente, prendevamo all’ultimo secondo. L’ho comunque sempre ritrovato o melo hanno sempre riportato. Quando lo riprendevo, dolcemente me lo mettevo al collo. È come la mia corona.

Appena giunto a Piazza Euclide, siamo nel lontano novembre del 1972, il Baloo di allora, F. S., con gli occhi luccicanti di lacrime, mi consegnò il fazzolettone. Io non ero ancora sacerdote, ero diacono dall’11 novembre. Ma F., dopo tante interiori lotte, avrebbe lasciato il sacerdozio qualche giorno dopo. Non avrebbe più detto messa nei campi scuola. Non avrebbe più parlato del Vangelo nel cerchio dei lupetti e delle coccinelle, che si aprivano prepotentemente al gioco della vita. Non si sarebbe appartato per confessare nei boschi. Dai suoi occhi intuii quanto gli costava. Lo aveva solennemente ricevuto subito dopo il funerale dalla mamma di Sandro Daghino, caduto durante una escursione in montagna. Non mi consegnava un distintivo, mi affidava la gioia e il dolore del Gruppo. Gliene sono riconoscente.

Ciò che il Gruppo scout ha significato per me non è facile dirlo. Solo ora comincio a capirlo chiaramente. Venivo dalla formazione del seminario del mio istituto. Un ambiente sano certo, ma un po’ monocorde. Era troppo accentuata la dimensione soprannaturale. Erano anche anni di sogni, di speranze, di desideri. Mi tuffai nel Gruppo. Trovavo tutto bello: i bambini, le famiglie, le messe in sede, i giochi, le interminabili discussioni, la CoCa (Comunità Capi) dagli infiniti e tortuosi dibattiti. Tutto bello. Il Gruppo scout mi ha fatto il dono di accompagnarmi, dopo la formazione del seminario, nella storia quotidiana: fatta di uomini, di donne, di giovani, di amori, di tradimenti, di bugie, di delusioni, di conflitti, di passione politica.
Ho sempre ritenuto di essere rinato il giorno dell’ordinazione sacerdotale: il 30 settembre 1973. Il grembo che mi ha generato nella Chiesa, oltre certo alla mia famiglia, la comunità del seminario, è stato il Gruppo scout. Mi sono sentito sgorgare da quella sorgente. Era la mia vera casa. Mi ricordava continuamente ciò che dovevo essere. Il Gruppo attendeva da me una parola non solo amichevole. Debbo anche riconoscere che il Gruppo era maturo per la solida formazione che P. Giovanni Lozano cmf aveva dato ai più grandi. Io ho, per osmosi, beneficiato di tutto lo splendido lavoro fatto da Giovanni. Ho ricevuto uno prezioso tesoro. Quante splendide famiglie ho ammirato! Ho accolto lo straordinario contagio di chi si apre all’amore, alla passione affettiva. Ho scoperto la maternità, la paternità. Come dimenticare mamma Sorrentino che sul letto del dolore e del congedo affida i suoi figli: “mi raccomando, non li dimenticare”.

Ho accolto, in religioso silenzio, il mistero della vita. Non certo che dovessi entrare nella vita degli scout come un parente acquisito… Ma i figli di mamma Sorrentino, come tutti gli altri, mi erano stati affidati. Sentivo di doverli accompagnare. Mi appartenevano. Nella preghiera mi sentivo loro vicino.

Poi, con il Gruppo, ci aprimmo al quartiere. Straordinaria intuizione! Non era certo priva, lo vedo chiaramente ora, di ambiguità, di contraddizioni. Eravamo come adolescenti esplosivi. E non avevamo ancora imparato ad ascoltare. Sentivamo il bisogno di parlare. Di dire. Di discutere. Di farci sentire. Si era decisamente capaci di proporre, rasentando quasi l’imposizione, ai saggi genitori che amorevolmente lasciavano fare.
Ho imparato anche a essere un po’ Idiota.

Ho imparato l’attesa, la compassione, l’amore che fa crescere, che sa aspettare.

A mo’ di simbolo ed esempio porto l’amicizia e la storia di Paola Bernabei. Il legame con Paola è come il filo conduttore dell’esperienza sacerdotale che ho vissuto e che vivo ancora. Intuii con estrema chiarezza, quando lei aveva appena scoperto di avere la leucemia, e io ricevetti l’ordine del trasferimento, che avrei potuto parlarle di Dio, darle la comunione, confessarla, alla sola condizione che io stesso avessi obbedito all’incomprensibile e misterioso disegno di Dio.

Solo se avessi accettato di lasciare il Gruppo con tutto ciò che questo avrebbe significato e comportato. Mi si sono scolpite nel cuore e nella mente la raccolta di firme, i pianti, gli abbracci.
Le voci insistenti che sussurravano o gridavano:
“Non accettare! Non obbedire! Protesta!”.
Siamo negli anni del dissenso. Non pochi mi spingevano su quel proscenio.
Unicamente per Grazia ho capito cosa significa la presenza sacerdotale in un gruppo. Solo obbedendo a Dio, pur nella fragile ed opaca mediazione umana, potevo continuare ad amare le persone che mi erano state affidate.
Assecondando il loro pur struggente e vero desiderio, li avrei inesorabilmente traditi.
Così mi rivedo solo alla Stazione Termini, 16 settembre 1975, con le lacrime agli occhi, ma felice! Sentivo di essere nel giusto. La mente popolata di abbracci, di saluti, di fazzolettoni sventolati nel vuoto ed anonimo binario di un giorno del tutto normale alla Stazione Termini.
I volti mi si erano stampati nel cuore.
E’ la mia incancellabile Sindone.
Al mio rientro a Roma sono stato felice di preparare Paola e Guido al sacramento dell’amore e della reciproca donazione. Ho concelebrato alla messa del loro matrimonio. Le iniziative che piano piano andavamo maturando scaturivano anche dai colloqui con loro.
Poi abbiamo abbracciato strettamente la Croce. La malattia di Guido ha sconvolto ogni umano progetto. Rivivo spesso gli ultimi istanti di Guido, devastato dalla malattia e dal dolore.
La Croce: talamo ed altare.
Nella piccola chiesa di S. Lucia, gremita fino all’inverosimile, abbiamo consegnato l’amico e lo sposo Guido alla Divina paternità di Dio. Volto a noi nascosto dietro la nube del pianto della sposa e, degli anziani genitori.
“Il Signore dà, il Signore toglie. Il Signore sia sempre lodato”.
Poi Paola è stata ella stessa portata dolcemente accanto a Colui che appassionatamente ha sempre cercato.
”Il tuo volto Signore io cerco”.
Un nuovo, straordinario ed imprevedibile tratto di strada.
Sono riconoscente a tanti scout di allora, uomini e donne di oggi. Mi hanno chiamato al capezzale dei genitori. Ho pianto con loro. Abbiamo pregato.
Sono anche corso a benedire nozze. Qualche battesimo. Come a riconoscere che c’è un permanente cammino sotterraneo. Ogni tanto emerge per testimoniare e ricordare, pur invisibile, ma che continua a fluire.
Anche dopo 30 o 40 anni il dialogo tra di noi si riaccende subito.
Forse perché mai interrotto.
Quando anni fa, dal fondo del baule, ho ripreso il fazzolettone non mi era chiaro ciò che significava. Oggi sì. Lo riguardo con tanta gratitudine e riconoscenza.
Sento che ha segnato la mia esistenza.
Forse la difficoltà di salute dell’ultimo periodo, mi ha reso più deciso, più determinato.
Il tempo si è fatto breve.
E sogno anch’io una rinnovata continuità. In parte l’abbiamo sperimentata in questi anni. Il Pranzo di Carmelo è stato il filo che ci ha permesso di continuare ad rincontrarci ed a sostenerci. Abbiamo cercato di scrutare sempre di più la Parola, di appassionarci alla Celebrazione (come una volta in sede), il servizio nel Centro di ascolto e nell’accoglienza ai poveri.

Buona caccia, lupetto!
Buon volo, coccinella!
Buona strada, esploratore!

L’ex assistente scout del Gruppo Roma XIII
P. Franco Incampo cmf

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