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Arti e Notizie Storiche

La chiesa di S. Lucia del Gonfalone sorge in via dei Banchi Vecchi, nel centro storico di Roma. La sua storia si lega alla fondazione e allo sviluppo dell’Arciconfraternita del Gonfalone. Pur possedendo una storia ricca quanto stratificata, con le prime notizie risalenti alla metà del Duecento, l’edificio si presenta oggi nel suo assetto essenzialmente ottocentesco, in quanto risultato di un integrale rifacimento –sul piano strutturale e decorativo – avvenuto sotto il pontificato di Pio IX, tra il 1863 e il 1867: un periodo particolarmente significativo per la storia d’Italia tra il traguardo fondamentale dell’unità, nel 1861, e la presa di Porta Pia, il 20 settembre 1870. Prima tuttavia che la chiesa assumesse il suo aspetto odierno, essa fu oggetto di numerosi interventi. Intorno al 1761, furono intrapresi importanti lavori di ristrutturazione, coordinati dall’architetto Marco David, responsabile per la ristrutturazione della sobria facciata in laterizio con elementi di travertino. L’interno, al contrario, si presenta nella sua veste ottocentesca, frutto della radicale riforma operata dall’architetto Francesco Azzurri, il quale, pur conservando la pianta ad aula unica, ne modificò l’assetto originario, progettando una grandiosa volta a botte ed ampliando il numero delle cappelle circostanti, anch’esse voltate a botte.

La decorazione pittorica di S. Lucia, eseguita in questi anni d’intenso fermento patriottico, testimonia l’ambizioso progetto di Renovatio Urbis inseguito dal papa Mastai Ferretti: un progetto atto a sviluppare un nuovo Rinascimento delle arti e della cultura romana, nel tentativo di garantire un decisivo rinvigorimento del potere temporale della Chiesa in seno al nascente Stato italiano. Interprete colto e raffinato di quest’eloquente programma neorinascimentale fu il pittore Cesare mariani. Nato a Roma nel 1826, formatosi presso lo studio del maestro purista Tommaso Minardi, Mariani viene ricordato dalla storiografia artistica per la sua febbrile attività di decoratore religioso come dimostrano i cantieri romani di San Paolo fuori le mura, Santa Maria in Monticelli, Santa Maria in Aquiro, San Lorenzo fuori le mura, Santa Maria di Loreto. Pittore prolifico e quanto mai elastico nell’assunzione di differenti modelli stilistici – dai fastosi mosaici ravennati alle delicate immagini raffaellesche, fino al dettato del Michelangelo sistino – il maestro romano si qualifica come un convinto assertore di un ritorno al linguaggio artistico del Rinascimento, proseguendo così su una via precedentemente intrapresa dalla scuola di Minardi e Overbeck, sempre pronta a scagliarsi contro la produzione – a loro avviso gelida, vuota e deleteria del Neoclassicismo italiano.

Nell’insieme sulla necessità “di imitare il vero con la massima semplicità” e di non risparmiare “tempo e fatica” nello studio, mariani s’inserisce in un filone assi diffuso nella seconda metà dell’Ottocento, teso alla restituzione di “quell’arte vecchia, però sempre viva e giovane” che contrassegna la tradizione figurava italiana, “cogliendo il più bel fiore di tutto e da tutto”.

La decorazione interna della chiesa – e specialmente della volta – ideata ed eseguita dal maestro romano tra il 1863 e il 1867, è tesa all’esaltazione delle opere di redenzione degli schiavi svolte dall’Arciconfraternita del Gonfalone sin dal Cinquecento. In questa opera, dalla struttura complessa ma ben articolata, Mariani coniuga il lessico di Raffaello con la monumentale lezione compositiva proposta da Michelangelo nella volta della cappella sistina, istituendo così un diretto legame tra il proprio operato e quello dei maestri precedenti. Responsabile per una radicale trasformazione nella sfera dell’arte, Michelangelo introdusse, in seno all’attività creativa, le premesse di un soggettivismo anticanonico e sovvertitore delle regole classiche deliberamene votato alla “licenza”. La presenza del modello buonarrotiano, con il suo “tremendo splendore”, sulla volta di Santa Lucia acquista, pertanto, un’inequivocabile valenza simbolica: imitare l’”inimitabile” e adottare il linguaggio non immediatamente codificabile elaborato dal maestro toscano significa, per Cesare Mariani, ribadire la necessità di attuare un ponderato recupero dell’arte rinascimentale, in modo da stabilire un fondamentale nesso interpretativo tra le creazioni dell’Ottocento e la grande officina del Cinquecento italiano.
Instaurando, in tal modo, un sottile dialogo con la creazione di Michelangelo, l’artista romano poté assicurare alle proprie imprese un indiscutibile valore estetico, “facendoci ricordare quel miracolo dell’arte ch’è la Sistina”, come sentenzia un acuto osservatore dell’epoca Basilio Magni. Nel proporre il capolavoro rinascimentale quale modello insuperato per l’esecuzione di una moderna pittura religiosa, Mariani riuscì ad assecondare, con piena consapevolezza e sorprendente dominio espressivo, il più ampio programma di rinascita dell’antica gloria artistica e pontificia sostenuto da Pio IX, in linea con il concreto tentativo di legittimazione storica inseguito dalla Chiesa in quegli anni. Se l’Italia doveva essere ricordata come un paese glorioso ed illustre, culla primigenia della civiltà occidentale, ciò è dovuto – secondo l’ottica ecclesiastica – all’azione vigile e pronta del Cattolicesimo romano: mariani come Michelangelo, dunque, per rivivere la mirabile stagione delle committenze pontificie del cinquecento.

Sulla parete della controfacciata, nelle lunette che circondano il finestrone Mariani dipinse le imponenti figure di Debora, sulla sinistra, e di Giuditta, sulla destra, sovrastate da un’iscrizione in cui viene ricordato il loro valoroso impegno nelle imprese di liberazione e redenzione dei popoli schiavi. Ancora sulla controfacciata, nella zona sottostante il fregio dipinto a festoni e la cornice modanata, sono sistemate, all’interno di una finta quinta architettonica, le personificazioni dell’Arte, seduta su un fastoso triclinio, sulla parete sinistra, e della Storia, adagiata sul lato destro.

Lungo la navata di Santa Lucia sorgono sei cappelle laterali, tre su ciascun lato, delimitate da pilastri ideati dall’architetto Francesco azzurri e decorati, ancora una volta, da Cesare Mariani. Sulle ampie superfici, il maestro romano dipinse alcuni personaggi biblici connessi alla liberazione dei popoli oppressi e alla realizzazione d’opere di carità, attività solitamente condotte dall’Arciconfraternita del Gonfalone sul lato destro sono rappresentati Tobiolo e i profeti Neemia ed Esdra; sul fianco sinistro, i profeti DanieleZorobabele e Geremia. Comunicanti tra loro, le cappelle presentano un apparato decorativo estremamente omogeneo, capace di mantenere tuttavia le caratteristiche distintive di ciascun sacello: sulle volte, Mariani e i suoi collaboratori eseguirono una fitta decorazione a finti lacunari, ulteriormente arricchita da grottesche; nei sottarchi vennero dipinti, in modo alternato, svecchiature e cherubini; sulle pareti laterali, in fine, furono realizzate decorazioni in finto marmo, con grottesche sistemate agli angoli. Gli altari conservano ancora le cornici settecentesche e, con ogni probabilità, risalgono a questo periodo anche i disegni delle mense e dei paliotti. Da ricordate, inoltre,lungo la navata, le quattordici tele dipinte ad olio, raffiguranti gli episodi centrali della Via Crucis: la passione di Cristo vi appare illustrata con un linguaggio corsivo, intimo e immediato, lontano da qualsiasi amplificazione retorica.
La zona absidale racchiude importanti testimonianze artistiche, tra cui vanno sottolineati gli affreschi eseguiti da Cesare Mariani ai lati dell’altare maggiore – come finti arazzi – due episodi particolarmente emblematici della storia della Compagnia romana: a sinistra il giuramento di Giovanni Cerrone eletto prefetto di Roma, e a destra, Sisto V nell’atto di benedire gli schiavi liberati. Nel catino absidale l’artista romano dipinse, tra il 1863 3 il 1865, la maestosa Visone di San Bonaventura, un avvenimento direttamente legato alla fondazione dell’Arciconfraternita del Gonfalone.

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Catino particolare DSC_0697a
Prima cappella a destra DSC_0564a
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L’altare maggiore, realizzato da Giuseppe Rinaldi, intorno alla metà dell’Ottocento, custodisce una copia della celebre Madonna Salus Populi Romani conservata a Santa maria maggiore: l’opera, di fattura alquanto delicata, viene tradizionalmente attribuita a Livio Agresti un pittore presente a Roma negli anni centrali del Cinquecento. In prossimità della zona absidale, nel presbiterio, va sottolineata la presenza, all’interno della cantoria di destra un imponente organo settecentesco, più volte spostato e recentemente restaurato. Dal presbiterio è possibile accedere alla sagrestia: ricoperta da un soffitto bianco, scandito da una trama di sottili profili lineari, essa custodisce un’opera realizzata nella seconda metà del XVII secolo, concordemente assegnata ad Ermenegildo Costantini, un maestro formatosi presso la bottega di Marco Benefial.

Ricardo De Mambro Santos